Skip to main content

Disclaimer: in questo articolo si fa spesso riferimento ai numeri (di streaming, follower, ecc.) degli artisti citati, perché il ragionamento sta sul piano della loro popolarità e non della qualità della musica che producono, che non è oggetto di dibattito in questo caso. E come indice di popolarità, i numeri funzionano piuttosto bene.

 

Andate a farvi un giro su Raptopia, la playlist più importante di musica rap/trap italiana su Spotify (186k Mi Piace) fra quelle incentrate su artisti emergenti, sulla musica di domani. Dando un’occhiata ai nomi, ai volti e alle storie personali degli artisti che ci troverete, vi accorgerete di una cosa: tanti di loro non sono italiani o, perlomeno, non hanno origini italiane.

Bene, ora andate a farvi un giro su Plus Ultra, la playlist più grossa di rap/trap italiana in assoluto (610k Mi Piace), in cui invece si trovano generalmente artisti già affermati e quindi, si potrebbe dire, la musica di oggi. Probabilmente tanti nomi li conoscerete, ma anche in caso contrario vi basterà poco per constatare che sono quasi tutti italiani, di nascita e di origini.

E quindi? Dove voglio arrivare? Voglio far tornare in voga l’hashtag #chiudeteiporti? Sono forse preoccupato per l’invasione che toglie il lavoro ai rapper italiani? Tutt’altro, ci mancherebbe. Però queste premesse sono il modo più rapido ed efficace per introdurre il discorso che voglio fare.

Il punto è che la musica che va per la maggiore oggi è dominata quasi esclusivamente da artisti italiani, con la pelle candida e i genitori – pure loro – italiani. Mentre in quella che con tutta probabilità prenderà il sopravvento domani (e che va già fortissimo fra i più giovani) trovano ampio spazio artisti nati in un altro Paese (o in Italia da genitori immigrati), spesso con la pelle di un altro colore. Questo ci dice inevitabilmente qualcosa riguardo non solo (e non tanto) la musica italiana, ma riguardo la società italiana. Movimenti politici – tutt’ora molto popolari – che fanno del diverso qualcosa da respingere, appaiono tanto più anacronistici quanto più li si mette in contrasto con la realtà della musica (e, a ben vedere appunto, della società) italiana, che sembra già raccontarci un Paese integrato, in cui le diversità culturali convivono e, spesso, confluiscono in un unico grande calderone. Senza grossi problemi, com’è giusto e normale che sia. Direi quasi fisiologico.

Amine Ezzaroui, in arte Neima Ezza, rapper classe 2001 con 700k ascoltatori mensili su Spotify, ormai da tutti gli addetti al settore considerato fra gli astri nascenti della scena urban italiana, è nato in Marocco.

Zaccaria Mourad, in arte Baby Gang, è nato a Lecco da padre egiziano e madre marocchina. Anche lui classe 2001, di ascoltatori ne ha quasi 600k e, come il collega sopracitato, è sulla bocca di tutti quelli che amano stare sul pezzo e seguire l’evoluzione del genere.

Sacky, nome d’arte di Sami Abou El Hassan, rapper milanese di origini marocco-egiziane, è amico di Baby Gang e con lui, oltre a condividere età, origini ed un’esperienza in carcere minorile, ha anche dato vita al pezzo Bimbi Soldato, che conta ad oggi più di 5 milioni di riproduzioni su Spotify. Continuando su questa linea troviamo poi Vale Pain, classe 2002 di origini peruviane, un altro nome già piuttosto affermato: 1 milione di ascoltatori mensili e collaborazioni pesanti, come quella con Gué Pequeno e Hell Raton nel celebre Bloody Vynil 3 di Machete.

Prendendo in considerazione nomi per il momento un po’ più piccoli, ma con già almeno un pezzo da uno o più milioni di ascolti in saccoccia, ci sono LUCHITOS (italo-brasiliano), Bubu Doc (italo-nigeriano), Axell (italo-senegalese), Samy (italo-tunisino), J Lord (italo-ghanese), Medy (nome d’arte di Mehdi El-Marbouh, di non meglio precisata “origine magrebina”).

E di cosa parla nelle sue canzoni questa nuova generazione di rapper? Più o meno delle stesse cose di cui parlano i loro italianissimi colleghi. Ed è proprio questo il punto: non parlano di cose molto diverse dagli italiani perché anche loro si sentono e sono pienamente italiani, perché nelle nostre periferie ci sono cresciuti e spesso anche nati. Uno dei pezzi più popolari di Neima Ezza, Perif, racconta la vita nella periferia milanese come potrebbe raccontarla chiunque altro. L’ha scritta Amine, nato in Marocco, ma potrebbe tranquillamente averla scritta Marco, nato e cresciuto nel quartiere di Loreto a Milano. Così come il singolo SEVEN 7oo (5 milioni di ascolti in 3 settimane) di Sacky, Neima Ezza e Vale Pain (fra gli altri) è un inno al quartiere di San Siro a Milano, non certo a chissà quale luogo esotico.

Aspetto non meno importante, l’internazionalizzazione della scena rap sembra andare sempre più in parallelo con una progressiva internazionalizzazione del sound. Da un lato verso l’America (l’ultimo disco di Capo Plaza è americanissimo), dall’altro verso l’Europa e in particolare verso la Francia (ne sono chiari esempi gli emergenti Rhove, Sacky e Axell, oltre allo stesso Capo Plaza).

Come il Covid-19 ci ha disgraziatamente dimostrato, viviamo in un mondo in cui i confini sbiadiscono e i fenomeni sono globali. Più rapidamente comunichiamo e viaggiamo, più l’idea che a definirci siano solo delle linee tracciate su una mappa va a farsi benedire. Figuriamoci il colore della nostra pelle. Suonerà retorico, ma forse è tempo di smettere di far fatica a tirare su muri e iniziare ad abbracciare la diversità con naturalezza. La musica lo sta già facendo. Quando lo farà anche l’opinione pubblica?